La cucina brigasca

Una cucina magra, una cucina pastorale, una cucina sana…ma buonissima

Aggiornamento: 8 giu

La terra di Briga é profondamente radicata in una tradizione pastorale secolare ( Didier Lanteri )

Prima del 1947, il comune piemontese di Briga Marittima era uno dei più grandi comuni del Piemonte, uno dei più grandi del Regno d’Italia. Dopo la firma del Trattato di Parigi, che sancisce il “rattachement” di La Brigue alla Francia, il comune di Briga Marittima venne smantellato. In effetti, solo il villaggio di La Brigue e una delle sue frazioni ( MorignoleMurignòo ) passarono alla Francia. Tutte le altre frazioni, Realdo (Reaud), Upega (Üpëga), Carnino (Carnin) e Piaggia (a Ciagia) rimasero in Italia. I Brigaschi si ritrovarono così orfani. Il primo, Realdo, fu assegnato al comune di Triora, passando così dal Piemonte alla Liguria. Piaggia, Carnino e Upega crearono un nuovo comune, il comune piemontese di Briga Alta. Così, l’ex comune di Briga Marittima fu diviso in due Paesi (Francia e Italia) e tre regioni (Alpi Marittime, Liguria, Piemonte).

Dal punto di vista geografico, Briga Marittima si estendeva intorno al Monte Saccarello, l’emblematica vetta di 2200 metri che oggi è il punto più alto della della Liguria e comprende i bacini dei fiumi Tanaro, Argentina e Levenza. La statua del Cristo Redentore eretta sul Monte Saccarello nel 1901 (Ër Sant dër Sciacarèe) è un punto di riferimento geografico per la comunità brigasca, in quanto considerata al centro del territorio brigasco, ed un punto di riferimento spirituale.

Dal punto di vista culturale, è interessantissimo notare che due frazioni che pur non appartenendo al comune di Briga Marittima, ne condividevano la cultura e la lingua brigasca: Verdeggia (vërdegia), dipendeva dal comune di Triora, ma era popolata esclusivamente da pastori brigaschi (la maggior parte con il patronimico Lanteri), mentre Viozene (Viusena), dipendente da Ormea, si è sempre dichiarata parte della comunità brigasca e i suoi abitanti praticavano un bilinguismo naturale (brigasco e ormeasco).

Pertanto, a prescindere dagli alti e bassi politici, la Terra Brigasca costituisce un’entità geografica, culturale e linguistica unica. Terra di frontiere e di pastorizia ha mantenuto nei secoli una fortissima coesione intorno alle proprie tradizioni e alla propria lingua.

Le pecore davano ritmo alla vita di tutti, a cominciare dalle famiglie di pastori che hanno forgiato l’anima di questa terra. Queste famiglie erano veri e propri nomadi, sottoposti agli incessanti spostamenti della transumanza pendolare inversa. Dal giorno di Ognissanti al primo canto del cuculo, da novembre a maggio, i pastori scendevano con le loro greggi nei pascoli marittimi per una stagione di oltre sei mesi. Perché lì dovevano trovare il Graal, cioè l’erba essenziale per l’alimentazione dei loro animali. Sulla costa provenzale o ligure, a seconda delle famiglie e del loro borgo, si vendevano le tome, la famosa toma brigasca, ma anche la ricotta, ottenuta dalla trasformazione del siero, il residuo della produzione della toma. Perché nulla deve andare perduto. La ricotta fresca, se ne rimaneva, veniva conservata nella cascia dër brus, dove veniva mescolata ogni giorno con le nuove aggiunte e successivamente salata. Fermentava e diventava il famoso brus fort, che queste famiglie consumavano come piatto pregiato, soprattutto per condire la pasta, con un po’ di aglio e noci.

Le mogli dei pastori erano incaricate di vendere la loro produzione. Sulle coste, in Francia come in Italia, i pastori brigaschi erano così numerosi e presenti da così tanto tempo da costituire una vera e propria istituzione. L’espressione “pastore brigasco” era quasi un’espressione pleonastica. Un pastore era brigasco e un brigasco, pastore…

Al primo canto del cuculo, queste famiglie riprendevano la strada per Briga perché l’erba stava ricrescendo. Ritrovavano il loro villaggio, le loro frazioni. Ma non vi rimanevano quasi mai, perché si spostavano rapidamente verso i pascoli intermedi, i vali. A partire dal 15 giugno salivano ancora più in alto e si recavano in alpeggio, dove raggruppavano le greggi secondo un’organizzazione del lavoro che permetteva loro di razionalizzare gli sforzi e liberare tempo.

Se il nutrimento delle pecore era fondamentale per i pastori – poiché era la ragione dei loro movimenti pendolari – il loro nutrimento era secondario. Per quanto riguarda la loro produzione alimentare, tutto ciò che poteva essere venduto doveva essere venduto: latte, tome, cagliata, agnelli. Mangiavano carne solo in casi eccezionali, ad esempio se uno dei loro animali si diroccava in montagna. Non avrebbero mai sacrificato uno dei loro animali per il cibo. La loro alimentazione era semplice e basata su farina, pasta o panissa. Il pastore di montagna difficilmente aveva il tempo di cucinare piatti elaborati. L’esempio emblematico è rappresentato dai mënun, questi grumi di farina impastati con il latte, fatti sommariamente dal pastore stesso sfregando le due mani e cotti in un calderone. Nel villaggio, le donne si occupavano con maggiore cura della preparazione dei pasti: così preparavano i sügéli che, pur essendo fatti solo di farina, acqua e olio, venivano modellati in modo originale, grazie ad un abile movimento del pollice che dava a questi piccoli cubetti di pasta una forma rotonda decorata con un certo numero di strisce (idealmente sette!) che avevano la virtù di trattenere la salsa. La salsa era spesso a base di brus fort, aglio e noci.

Con la pasta, le donne preparavano anche torte. Queste torte meritano un appunto, perché restano un piatto di riferimento. Ëncöi fama turta! Oggi facciamo la torta. E si noti che nella frase in brigasco, turta non ha articolo. Come se la parola turta potesse fare a meno di un determinante, come se fosse determinata da sé, come se fosse autodefinita. Senza dubbio è il forte ancoraggio referenziale della parola turta a giustificare l’assenza di un articolo in questo caso. Come nell’espressione avere a cuore… Oggi si fa torta….

Perché la parola turta è di per sé sufficientemente esplicita. Non che ci sia necessariamente una sola torta, no, ma per ogni famiglia questa parola evoca radici secolari, evoca odori che hanno acquisito lo status di un ricordo ancorato in modo permanente nella memoria, evoca una donna o più donne che impastano, che preparano le verdure, evoca il crepitio dei porri tagliati finemente in padella, la tela cerata del tavolo da cucina, un giornale pieno di bucce, il tayaùu (tagliere rotondo), l’infanzia, il lusagnaùu (mattarello), una rascceta (raschietto).

Ëncöi fama turta. Perché fare la torta era una festa. Ci voleva olio, un alimento prezioso. Si doveva andare a cuocerla nel forno comune, con il pane, e c’era un turno organizzato per questo. Non si aveva accesso al forno quando si voleva. Ma ancora oggi, anche se tutti hanno l’olio, anche se ognuno ha il proprio forno, fare una torta (fàa turta) è ancora un po’ una festa. È questa la magia della torta, perché si tratta solo di zucca, patate e porri. In altre parole, non è un granché, ma è comunque un piatto emblematico dei nostri villaggi.

La torta più classica della nostra regione è la torta di patate: tantifulusa a La Brigue (dove la patata si chiama tantìfula), patacusa a Realdo (dove la patata si chiama pataca), la torta di patate mescola porri e zucca con le patate.

In pratica, per preparare il ripieno della torta – che noi chiamiamo r’enciüm – bisogna soffriggere in padella dei porri tagliati a fettine sottili e poi mescolarli con pezzi di zucca. Non zucchina, ma zucca. Non c’erano zucchine lassù, ma zucche rotonde che potevano resistere al freddo e superare l’inverno. È necessario cuocere la zucca? Solo sbollentarla – dunarlì ‘n buy – cioè mettere dei cubetti grossolani in una pentola d’acqua e portarli a ebollizione per poco tempo, in modo che siano abbastanza teneri da poter essere schiacciati con una forchetta e mescolati ai porri. Le fette di patate dovranno cuocere un po’ più a lungo e saranno anch’esse mescolate al resto.

In alcune famiglie i porri, la zucca e le patate non vengono precotti, ma tagliati a fette sottilissime allo stato crudo.

In ogni caso, si aggiungono due belle manciate di formaggio grattugiato. Ogni famiglia conservava la sua tuma da gratàa, la sua toma di pecora, che veniva lasciata essiccare per poter essere grattugiata.

Sale. Pepe. E a casa nostra, ma credo sia comune, si aggiunge un po’ di noce moscata.

Per quanto riguarda l’impasto, è lo stesso dei sügéli. Viene steso con il mattarello, sottile ma non troppo (in modo che una volta cotta la torta possa reggersi in mano), viene steso nel test (il piatto da torta), e viene riempito con il ripieno (r’enciüm). Ad alcuni la torta piace spessa, altri la preferiscono più sottile. Ad libitum. Quindi coprire con una seconda sfoglia. Entrambe le sfoglie vengono saldate insieme. Ognuno ha il suo metodo. Nel nostro caso, i bordi vengono accuratamente arrotolati insieme e poi decorati facendo delle tacche (osche) con le forbici. Non dimenticare di bucare la parte superiore (con una forchetta o sempre con le punte delle forbici). Cuocere in base alla conoscenza del proprio forno. Spesso la cottura avviene in due fasi: un inizio di cottura in un forno molto caldo e una fine con meno calore.

Il tortino poteva anche essere a base di brusa brussusa – più o meno speziato con aglio a seconda della disponibilità; o a base di foglie di spinaci (e in particolare di spinaci selvatici – i ingri – che crescono spontaneamente vicino agli ovili perché amano i terreni azotati): a turta d’erbe.

Ma qualunque sia la ricetta e le preferenze familiari, la torta rimane un piatto festivo che evoca nella memoria collettiva le infornate al forno comunale. A turno, ognuno ci portava il suo pane sulla panera – la lunga tavola di legno bordata su tre lati e portata dalle donne sulla testa – e poi le tortiere, i testi. Dopo la cottura, le casalinghe tornavano a casa per le strade del villaggio con pane e torte dal profumo delizioso. È senza dubbio questa memoria che si è conservata e, chissà, forse si trasmette anche a coloro che non hanno vissuto queste furnàe ma ai quali una turta procura comunque “quel piacere delizioso che rende indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensive le sue catastrofi, illusoria la sua brevità, allo stesso modo dell’amore”… quella sensazione così ben descritta du côté de chez Swann quando Marcel Proust “portava alle labbra un cucchiaio di tè in cui aveva lasciato ammorbidire un pezzo di madeleine“…

È questo stile di vita austero e ascetico dei pastori e delle loro famiglie che ha forgiato la cucina brigasca, di cui le torte, la pasta, il formaggio e i formaggi di pecora sono gli elementi fondamentali. Da allora, questa cucina si è arricchita, imborghesita, la carne è diventata comune, ma gli elementi di base sono rimasti. Il famoso Sügéli-brus viene consumato sempre meno, in parte perché è sempre più difficile ottenere questa ricotta forte, ma anche perché i gusti sono cambiati. La gente preferisce ormai il sapore dei sügéli-lapin (coniglio) o quello dei sügéli-doba (ragù). Il Parmigiano o il Pecorino stanno gradualmente sostituendo la Tuma da Briga nelle ricette. (Didier Lanteri)

( Si ringrazia la signora Corinne Lanteri per le fotografie dell’articolo)

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